Cradle Of Filth – “Dusk… And Her Embrace” (1996)

Artist: Cradle Of Filth
Title: Dusk… And Her Embrace
Label: Music For Nations
Year: 1996
Genre: Symphonic Black Metal
Country: Inghilterra

Tracklist:
1. “Humana Inspired To Nightmare”
2. “Heaven Torn Asunder”
3. “Funeral In Carpathia”
4. “A Gothic Romance (Red Roses For The Devil’s Whore)”
5. “Malice Through The Looking Glass”
6. “Dusk And Her Embrace”
7. “The Graveyard By Moonlight”
8. “Beauty Slept In Sodom”
9. “Haunted Shores”

A voler ricostruire anno per anno l’ascesa della corrente Black Metal, il 1996 andrebbe considerato non tanto come l’annata segnata dalle pubblicazioni più rappresentative o influenti, quanto in realtà come quella carica di differenti sensibilità locali che avrebbero consentito al genere il passaggio dalla dimensione prettamente scandinava al fenomeno di massa moderno, a cominciare naturalmente dalla vecchia Europa: mentre la Norvegia punta lo sguardo verso le stelle raggiunte da Arcturus, Limbonic Art e Mysticum, o verso terra, il mito e il folklore di Satyricon, Burzum, Troll e Kvist tra gli altri, la Svezia esplora i territori ugualmente notturni ma ulteriormente radicati nel fantastico grazie a Vinterland, Setherial e Sacramentum; e mentre la Polonia sta piantando i semi dell’ondata pagana orientale attraverso gli sforzi non indifferenti di Behemoth, Sacrilegium ed Arkona, la Germania si fa largo a colpi di diversissima personalità mediante i lavori di Bethlehem, Empyrium e Falkenbach.
Si tratta come logico di sviluppi a lungo termine, di avvenimenti dilatati nel tempo che per acquisire senso devono seguire un testimone consegnato da questi fondamentali debutti nonché raccolto dai loro anche più fortunati seguiti; tuttavia un’eccezione a tale assunto di natura squisitamente storica c’è, e avviene in un’Inghilterra che pur avendo la sua identità plasmata tra gli altri da Bal-Sagoth ed Hecate Enthroned (nonché Primordial di “Imrama”, volendo allargare lo sguardo alla confinante Irlanda e rimanendo nell’alveo di label) viene invece scossa da un evento immediato, di quelli che in pochi avrebbero previsto e in ancora meno avrebbero voluto: il primo album Black Metal edito da una major del tutto esterna al settore estremo.

Il logo della band

Al giro di boa del decennio Dani Filth realizza di essere a tutti gli effetti seduto su di una vera miniera d’oro. “The Principle Of Evil Made Flesh” ha messo d’accordo ogni tipo di pubblico quanto basta per definire da subito i Cradle Of Filth la nuova next big thing, sull’onda di una proposta dalla sensibilità splendidamente al passo coi tempi e di quel leytmotif vampiresco perfettamente puntuale nel cogliere il ritorno in auge di tale figura ad inizio anni novanta, dopo il fortunatissimo Dracula di Coppola e la costante notorietà dei libri di Anne Rice. Tante perciò sono le formazioni che si accodano al carrozzone di sangue finto e canini posticci condotto dagli inglesi, siano essi progetti di breve durata e scarso riscontro (solo in casa Cacophonous si contano Ancient Ceremony, Twilight Ophera ed Abyssos) oppure realtà già ben avviate quali i rivoluzionati Ancient di “Mad Grandiose Bloodfiends”. Temprata a suo tempo dalla fuoriuscita di ben tre componenti su sei, la forte leadership del cantante unita all’evidente fiducia nel nuovo materiale spinge la band ad emanciparsi dal limitato potenziale della piccola etichetta conterranea, il cui contratto per due uscite viene adempiuto non con un secondo full-length (già registrato dalla vecchia line-up e pronto alla distribuzione) bensì con l’altrettanto rinomato EP di oltre mezz’ora “V Empire, Or Dark Faerytales In Phallustein”. Si fa dunque avanti Music For Nations tramite i Paradise Lost di “Shades Of God”, “Icon” e “Draconian Times”, colosso d’Oltremanica con sotto mano buona parte dell’Heavy, Glam e Thrash Metal di primo piano, e sicuramente convinto più dall’immagine facilmente commerciabile dei succhiasangue del Suffolk che da quanto ascoltabile sul corposo mini; eppure la combriccola di Ipswitch ci crede abbastanza da riarrangiare, reincidere e rilasciare l’intero disco in soli quattro mesi dal”uscita di “V Empire…”.

La band

“Dusk… And Her Embrace”, concentrato di litanie di dannazione, morte e del morbosamente erotico, ripaga quello sforzo con gli interessi non soltanto attraverso un boom di vendite impensabile per qualunque esponente del metallo nero (occorrerà infatti attendere un paio di mesi all’esaurimento istantaneo della prima tiratura limitata uscita a fine agosto per averne una seconda regolare), ma soprattutto perché rappresenta ancora oggi e dopo venticinque anni dalla sua uscita la forma effettiva di ciò che i Cradle Of Filth volevano fare, hanno fatto e avrebbero poi pensato e ripensato di fare. La forza di “The Principle Of Evil Made Flesh” nel 1994 è stata il millimetrico bilanciamento tra i rarefatti tocchi orchestrali e l’identità estrema evidentissima, tra la sublime lascivia dei capolavori letterari di Stoker e Polidori ed il grand guignol anche un po’ buffonesco dei film della Hammer – “Dusk…” è, al contrario, un unico blocco scolpito senza bisogno di aggiunte esterne, dove entrambe le anime del debut sono spinte all’eccesso tanto da esondare dai margini e mischiare i propri fluidi corporei sul talamo di un songwriting irripetibile. L’astuzia del mastermind è stata in fondo quella di nascondere sotto qualche aggiustatina al look e al sound (difficile dopotutto poter finire per convincere una Music For Nations col pesante corpse paint e la produzione dei precedenti lavori) tutta la magniloquenza di cui il suo estro è mai stato capace, limitando il marketing alle sole apparenze e sfidando ogni criterio di vendibilità con un tris di composizioni iniziali gravitanti intorno agli otto minuti di durata, in un esperimento teorico che lo avvicina al successo ottenuto mediante pezzi per nulla immediati dai Type O Negative di Peter Steele, ovverosia l’altro Nosferatu per eccellenza dei Nineties.
“Heaven Torn Asunder” ed “A Gothic Romance” sono foreste di riff incalzanti nel loro retrogusto Thrash, disseminati in maniera contorta ed irregolare dall’eccellente new entry Stuart Anstis ed arricchite dalle incursioni tastieristiche di Damien Gregori, anche lui nuovo in seno al gruppo ed autore di una prestazione ricolma di sfumature nei suoni e negli strumenti campionati. A svettare in mezzo ad esse c’è però l’inno “Funeral In Carpathia”, non soltanto il momento di massimo splendore degli inglesi ma pure la probabile summa definitiva del filone sinfonico di più immediato acchitto inaugurato da “In The Nightside Eclipse” e giunto ora alla sua espressione migliore: scambi da manuale ad opera di keyboards e sei corde, giganteschi innesti di una voce femminile sentita e credibile come poche altre volte, e infine quel Dani Filth disumano su qualunque registro vengono riassunti in tre parole inifilate l’una con l’altra – supreme vampiric evil. E nonostante proprio il tris di vocaboli proclamati nella magnifica sezione centrale dicano già tutto su questa musica celestiale, “Dusk… And Her Embrace” continua a stupire schierando prima “Malice Through The Looking Glass”, praticamente una ballad dall’eleganza inedita persino per i non-morti britannici, poi i lead e le ritmiche da Heavy Metal classico che spuntano nella title-track e dalle quali si ripartirà nel 1998 con il blockbuster “Cruelty And The Beast”, ed infine l’inaspettato cameo di niente meno che il già leggendario Cronos ad officiare la chiusura di un autentico instant classic.

Scelta bizzarra, in fondo, quella di sigillare un full-length talmente raffinato nella scrittura e nelle tematiche con la comparsa di un’icona assoluta del retroterra più primordiale e sgraziato che fu; eppure può darsi che nemmeno “Dusk… And Her Embrace”, nella sua ambizione a tutto tondo, sia riuscito a rimanere totalmente scevro della controparte becera e fracassona che da sempre si intreccia, in un abbraccio che sa di reciproco morso sul collo, alla visione barocca del comandante in capo: del resto “Cruelty And The Beast” si rivelerà una riproposizione di quanto uscito nel 1996 filtrato però da un engineering votato all’impatto di chitarra e batteria, mentre con “Midian” verrà trovato l’equilibrio perfetto quanto precario tra il grandeur da colonna sonora esploso dai Dimmu Borgir coevi e la forma-canzone da live show.
A fronte quindi di ciò che li attende al tramonto del millennio, “Dusk…” è l’album più amato degli albionici non perché sia l’ultimo immerso anche solo in una parvenza di Black Metal ma perché è quello che, a vent’anni secchi dalla fine della loro presumibile età dell’oro, suona più sincero nella sua pretesa grandiosità: si pensi alle liriche scritte quasi di getto e senza logica narrativa da Dani Filth, il quale nei futuri lavori menzionati si affiderà al concept biografico nel ripercorrere le gesta di Erzsébet Báthory e letterario nel raffigurare gli orrori concepiti da Clive Barker, accantonando per il momento il qui evidente culto della forma descrittiva prevalente sul contenuto esposto. Al momento della scrittura di questo articolo nonché a cinque lustri dalla sua uscita, i Cradle Of Filth sono tornati alla posizione di rispetto da parte del grande pubblico che sotto sotto hanno sempre meritato; ma forse questo ritorno di popolarità ci ha anche impedito di comprendere il reale segreto celato dietro le loro vette così come nei loro abissi: se col tempo siamo arrivati a disprezzare questa band e a maledirne l’apparentemente spocchioso leader (ad esempio quando ritenne una buona idea deturpare la stessa “Funeral In Carpathia” soltanto tre anni dopo nel mini “From The Cradle To Enslave”), allora teniamo conto che si tratta anche della stessa arroganza che ha portato un gruppetto Death Metal di quart’ordine, ironicamente graziato dalla distruzione del suo primo album mai rilasciato perché mai pagato dall’etichetta nel 1992, ad incidere un capolavoro fresco oggi come venticinque anni fa. E contro quest’ultimo dato di fatto non ci sono davvero aglio o acqua santa che tengano.

Michele “Ordog” Finelli

Precedente Empyrium - "A Wintersunset..." (1996) Successivo Gehenna - "Malice (Our Third Spell)" (1996)